«Ogni politica di emancipazione
deve puntare a distruggere l’apparenza
dell’ordine “naturale”»
Mark FIsher
Quando ero bambino una maestra mi fece fare un gioco che in molti avranno affrontato nel corso della propria esperienza scolastica. Mostrando a me e i miei compagni una carta geografica insolita, ci invitava a leggerla e comprenderla, senza darci spiegazioni. Si trattava di una carta che non aveva al centro l’Italia, e nemmeno l’Europa.
L’effetto immediato fu di spaesamento e stupore. Molti anni dopo, studiando la storia del mediterraneo all’università, affrontai un esperimento simile. L’operazione in quel caso non fu di guardare al mondo da una centralità diversa, ma da una prospettiva capovolta. Al posto di osservare la carta con i punti cardinali al loro posto, l’operazione fu di invertirli: a quel punto non era più l’Italia che dominava il centro del Mediterraneo. O, almeno, lo era ancora, ma la presenza del continente africano assumeva un’altra rilevanza.
In entrambi questi giochi didattici veniva problematizzata la prospettiva naturale entro cui siamo abituati a crescere. Si tratta di una visione profondamente radicata nel nostro immaginario e nella consapevolezza che abbiamo del mondo: il nostro punto di vista non era più adeguato a comprendere le dinamiche geografiche, ma anche sociali ed economiche, di quanto osservavamo.
Quanto sta avvenendo con l’abbattimento delle statue negli Stati Uniti, e come un’ondata in altre parti del mondo, assume oggi lo stesso significato: mette in crisi il nostro punto di vista. Questo mette a disagio, crea spaesamento, incomprensione: perché stanno abbattendo un pezzo di storia? Si domandano in molti. Allora forse dovremmo abbattere anche ogni riferimento alla storia romana? E cosa ne facciamo di tutti gli altri segni di potere che nel corso della storia sono stati incastrati nell’urbanistica delle città? Le domande che stanno sorgendo evidenziano questo disagio, questa incomprensione: è ancora il nostro punto di vista di uomini bianchi e colonialisti che non accetta di essere messo in discussione.
La storia e la memoria non si costruiscono a tavolino, se non dopo l’instaurazione di una legittimità politica che ne scalza una precedente. Quando il regime di Mussolini si adoperò in un’ampia politica di italianizzazione, o quando impose il calendario fascista, stava facendo proprio questo: costruire una nuova storia. Ma quanto sta avvenendo nel mondo non è un gioco intellettuale, è una rivolta ai segni di quel potere che per secoli si è fatto usurpatore delle vite di milioni di persone. Questa non è, ed è giusto che non sia, la fase della definizione di politiche della memoria, ma è la fase della presa di parola di chi finora è stato escluso da quelle stesse scelte politiche e che oggi, ancora, non ha voce.
Come ha ben chiarificato un comunicato dell’American Historical Association del 2017, «rimuovere un monumento non significa cancellare la storia, ma piuttosto alterare o richiamare l’attenzione su una precedente interpretazione della storia». E a decidere che una precedente interpretazione della storia sia aggressiva nei confronti di una soggettività, di una comunità, di una minoranza, non è chi l’ha instaurata a deciderlo, ma chi l’ha subita.
Oggi non è possibile affermare ancora il nostro privilegio, ma è necessario accettare che sia messo sotto accusa. Domani, forse, capiremo come costruire una memoria collettiva che tenga conto anche di questo. Ma ora la parola spetta ad altri, non a noi.