L’Ex OPG “Je so’ Pazzo” è casa nostra, perché casa nostra è casa di tutti!

Siamo arrivati al nono compleanno dell’Ex Opg, nove anni dalla liberazione di questo enorme Ospedale Psichiatrico Giudiziario che era stato abbandonato nel degrado dalle istituzioni. Dopo nove anni di lotte, stanno finalmente per iniziare i lavori di ristrutturazione della struttura, qualcosa di mai visto prima a Napoli. Una sfida inedita ci attende, e per questo sentiamo la necessità di prendere parola e fare il punto sui passaggi e sulla storia incredibile e collettiva vissuta in questi anni.


“Non potrete mai restare qui, vi sgombereremo”, ci dicevano, “Non riuscirete a reggere la gestione di un posto così grande”, “In questa città la gente non si interessa a niente”… Quante ne abbiamo sentite il giorno dopo l’occupazione! Ma noi, a differenza dell’élite politica ed economica che ci governa, abbiamo sempre avuto una grande fiducia nel nostro popolo e una grande determinazione contro la “normalità” che ci circonda. Pronti ad affrontare le sfide che un progetto del genere in un luogo del genere ci prospettava, scrivevamo che volevamo fare “tutto al contrario” rispetto alle logiche dominanti perché “in un mondo dove la normalità è fatta da disoccupazione, precarietà, discriminazioni razziali e di genere e chi più ne ha più ne metta, vogliamo dichiararci pazzi anche noi e osare organizzarci per riprendere parola e costruire dal basso un’alternativa al mondo grigio e disperato che vediamo quotidianamente”.

Avevamo innanzitutto due obiettivi:

  • Sottrarre lo spazio all’abbandono: l’Ex OPG era stato un luogo di oppressione e reclusione e, dopo la chiusura arrivata finalmente nel 2008, era stato lasciato in uno stato pietoso, senza alcuna manutenzione e senza nessuna funzione utile per il quartiere e la città. Volevamo farlo rivivere fuori da ogni logica di profitto ed esclusione sociale.
  • Rispondere a esigenze concrete e costruire pratiche di mutualismo per venire incontro a tanti bisogni sociali a cui le istituzioni non riescono o non vogliono più rispondere, non per sostituirci alle istituzioni ma per costruire solidarietà e mobilitazione, un vero luogo di attivazione democratica e di lotta.

Proprio per questo, più che imporre un nostro piano astratto, abbiamo iniziato a fare inchiesta, a capire come metterci al servizio della nostra gente. Abbiamo aperto queste porte e siamo stati travolti da energie, bisogni, richieste, proposte di ogni genere, da cui sono nati innumerevoli percorsi e iniziative. Sarebbe impossibile elencare in un breve documento tutto ciò che è stato fatto. Nell’Ex OPG Je So Pazzo sono nate decine di attività sociali, l’ambulatorio popolare, gli sportelli legali e il protagonismo delle comunità migranti, le campagne contro il lavoro nero, l’aggregazione a partire dallo sport e dalla musica, iniziative politiche, spettacoli teatrali, incontri con attivisti, artisti e personalità da ogni parte del mondo..

All’Ex OPG tutte le attività sono gratuite, i problemi si risolvono insieme: si impara a lavorare insieme, a discutere insieme, ad avanzare insieme. È diventato un luogo dove si incontrano giovani, rifugiati, lavoratori, abitanti del quartiere – soggetti sociali che “normalmente” non condividono luoghi o esperienze.

Tenendo la barra dritta sugli obiettivi che avevamo definito e sull’incredibile, mutevole ed eterogenea comunità che ha cominciato ad abitare e usare collettivamente gli spazi, abbiamo affrontato la minaccia di sgombero posta dalla Polizia Penitenziaria che era ancora custode del bene, le innumerevoli contrarietà istituzionali sul riconoscimento di un’esperienza nata da un’occupazione, da una lotta sul territorio e per il territorio, che non voleva semplicemente incanalarsi in un processo standardizzato e snaturarsi, ma allo stesso tempo voleva che un bene come l’Ex Ospedale Psichiatrico tornasse a pieno titolo alla città e ai suoi abitanti, sottraendolo finalmente alla custodia inappropriata della polizia penitenziaria.

In giro per l’Italia sono nate numerose esperienze simili, luoghi di pratiche di mutualismo e di vera e propria resistenza alla crisi e veri e propri laboratori di democrazia diretta. A Napoli si è portato avanti un lungo percorso per il riconoscimento di questi spazi come “beni comuni”, a partire dall’Ex Asilo Filangieri. Sono stati riconosciuti come tali per la rigenerazione urbana che hanno innescato, per l’uso non esclusivo che hanno sviluppato grazie a una governance democratica, e anche perché assolvono pienamente a un ruolo in netta controtendenza con quel mantra, che domina ormai da anni, di tagli agli enti locali, alla spesa pubblica, di spinta alla privatizzazione e alla svendita del patrimonio pubblico come prospettiva di “efficienza”. (eventualmente link sito beni comuni)

Come siamo arrivati quindi a riuscire a portare avanti il passaggio di proprietà dal Demanio al Comune e ad ottenere che, una volta tanto, un pezzetto di quei fondi europei che vengono dalle nostre tasche, dalle tasche dei lavoratori, e che spesso le amministrazioni non riescono a spendere o regalano ai privati, arrivasse nella nostra città e fosse indirizzato non alla speculazione, ma alla valorizzazione di uno spazio sociale?

1. Riavvolgiamo il nastro. Il processo di trasformazione e rigenerazione dal basso dell’Ex OPG “Je so’ pazzo”

1859. In seguito, con l’unità d’Italia, divenne un ospedale psichiatrico e, dagli anni Settanta fino al 2008, l’O.P.G. sotto la custodia del Ministero di Grazia e Giustizia. Nel 2008 venne dismesso e abbandonato, lasciato al degrado e al saccheggio. Le condizioni già precarie di alcune zone della struttura non hanno fatto altro che peggiorare negli anni successivi.           

Quando il 2 marzo del 2015 annunciammo alla città che avevamo riaperto le porte di quella che era stata una prigione per farne un luogo di liberazione e solidarietà, l’iniziativa ebbe una forte attenzione pubblica sia per quello che aveva significato quel posto – non era mai successo prima che un collettivo “occupasse” un ex carcere di tali dimensioni – sia perché, anche con nostra sorpresa, scoprimmo che formalmente era ancora un carcere, ovvero che la custodia era ancora nelle mani del Ministero di Grazia e Giustizia.

Di fronte all’immediata richiesta di sgombero dell’immobile da parte della polizia penitenziaria, inizialmente accolta dalla magistratura, parte una battaglia politica intensa e straordinaria, perché la grande solidarietà e il lavoro di rigenerazione dal basso comincia a parlare a tante persone in città e a coinvolgerle direttamente. Raccolte firme, cortei, assemblee pubbliche, iniziative culturali: tutta questa ricchezza ha portato il magistrato che indagava sul reato di occupazione a riconoscere che sì, era stato commesso un reato di occupazione e di violazione della proprietà, ma si era anche prodotta una grande attivazione civica e democratica da tutelare sulla base dei principi costituzionali (in particolare nei diritti di partecipazione, art. 49) e nella “funzione sociale” della proprietà (art. 42). Il magistrato dava quindi il compito al Comune di trovare le forme di riconoscimento di quest’esperienza, e gli affidava la custodia giudiziaria del bene.

Incredibile ma vero, avevamo raggiunto un obiettivo che all’inizio sembrava impossibile. Il posto abbandonato e riaperto da un gruppo di giovani “pazzi” non veniva sgomberato e riportato all’abbandono. La custodia veniva tolta dalle mani della polizia penitenziaria che aveva rovinato questo bene storico. La proprietà restava ancora in capo al Demanio, ma il Comune ora finalmente chiedeva che si aprisse un tavolo per poter acquisire il bene. Un passaggio per noi cruciale, perché avrebbe significato restituire ai cittadini quello che a loro appartiene, mettere quest’edificio nella disponibilità di un’istituzione di prossimità e non di un ente lontano e disinteressato.

Ci pensate? In Italia, secondo i dati più recenti dell’Agenzia del Demanio che risalgono al 2015, ci sono per esempio più di 1500 caserme abbandonate che i Comuni normalmente non richiedono e, troppo spesso, quando i collettivi e i movimenti hanno provato a liberare questi enormi spazi, hanno subito sgomberi e denunce, senza troppe differenze tra amministrazioni di centrodestra o centrosinistra, tutti sempre pomposamente molto compatti in difesa della legalità formale e della proprietà privata, oltre a essere contro qualsiasi fenomeno di attivazione democratica che non possono direttamente “influenzare”.

Tornando all’Ex OPG, una volta aperto il tavolo tra Demanio e Comune, per la legge sul federalismo demaniale (D.lgs 85/2010), il Comune doveva motivare la richiesta di acquisizione della proprietà a titolo gratuito attraverso un progetto di valorizzazione. Avevamo dunque un nuovo ostacolo davanti, perché il Comune di Napoli era in predissesto, strozzato da un debito ingiusto e quindi senza un bilancio attivo da cui poteva attingere per progetti di rigenerazione urbana che restituissero fruizione pubblica e accessibile di strutture abbandonate.

L’unica strada era tentare un finanziamento europeo. Normalmente le pubbliche amministrazioni spendono soldi in questo senso per consulenze private per architetti e progettisti esterni, che spesso scrivono piani improbabili, avulsi dal contesto in cui i beni si collocano. O, spesso, soprattutto al Sud, non presentano affatto progetti per mancanza di personale e della relativa organizzazione e pianificazione necessaria.

Ma la nostra progettazione si stava scrivendo da sé, grazie al laborioso lavoro che aveva dato vita al doposcuola, alla palestra popolare, all’ambulatorio, le cucine, le zone per la musica e per il teatro e così via… E non parlava di valorizzazione economica, ma di valorizzazione sociale. Traducemmo così questo lavoro grazie al supporto dell’Assessorato ai Beni Comuni della Giunta De Magistris e il comune riuscì ad ottenere il finanziamento che, con successive deliberazioni, è arrivato a 16 milioni di euro! Soldi che, è bene ribadirlo, vengono dall’Unione Europea e non dal bilancio comunale, non sono stati stornati da altre voci di spesa, non potevano essere cioè utilizzati per altro e che, se non avessimo occupato e presentato il progetto, sarebbero stati semplicemente persi… Che si sia d’accordo o no con la nostra attività, l’aver recuperato “fuori” dei fondi che vanno a migliorare un piccolo pezzo di città è una vittoria innegabile.

Nel 2021 si conclude finalmente il passaggio di proprietà e contestualmente il riconoscimento attraverso delibera comunale dell’Ex OPG come bene comune secondo l’uso civico e collettivo urbano.


Con l’insediamento della giunta Manfredi – in una coalizione praticamente formatasi sul modello “Draghi”, che andava dal Partito Democratico a un pezzo di Forza Italia –, di fronte ai necessari nuovi passaggi per la progettazione dei lavori che riguardano sia l’Ex OPG sia lo Scugnizzo Liberato, ci viene detto che non si voleva continuare a lavorare con un rapporto diretto tra comunità che autogovernano i beni comuni e pubblica amministrazione, ma che bisognava avere un ente terzo per portare avanti una vera e oggettiva co-progettazione.  

“Perché non siete davvero inclusivi”, “perché ci servono parametri veri”, “perché bisogna far evolvere i beni comuni”, “perché dobbiamo costruire un processo realmente pubblico” etc etc.
Decidiamo quindi, insieme alla comunità dello Scugnizzo Liberato, di non sottrarci a questa sfida, consapevoli della piena trasparenza e della fatica spesa senza tornaconti personali. Inizia così il percorso di coprogettazione con la Scuola Open Source, denominato “Ad uso civico e collettivo”, che ha riguardato l’indagine dei bisogni considerati prioritari nel territorio e un conseguente tavolo di architettura per tradurli come indicazioni per la progettazione successiva, l’analisi dei processi di governance della comunità e della cosiddetta redditività civica dei beni comuni. Andiamo a vedere, scorporando i temi, cosa ne è uscito e quali passaggi sono seguiti.

2. Come cambierà l’Ex OPG? Una pianificazione pubblica e partecipata da difenderesso dell’Ex OPG “Je so’ pazzo”

La prima parte della coprogettazione si è concentrata sulla mappatura delle attività esistenti e su un questionario rivolto agli abitanti del territorio. L’indagine territoriale si è svolta con 280 interviste avvenute a mezzo social, volantinaggio e sfruttando luoghi attraversati tutti i giorni dalla cittadinanza come gli esercizi commerciali. Oltre ad interrogare la conoscenza delle attività svolte negli spazi, si cercavano di capire le mancanze più sentite sul territorio, di cui riportiamo una panoramica, che per quanto parziale riteniamo significativa:

  • Spazi verdi e luoghi di aggregazione, all’aperto e al coperto – 40%
  • Attività culturali, spettacoli teatrali e rassegne cinematografiche – 15%
  • Spazi e attività per bambini e famiglie, ludoteche – 14%
  • Palestre e spazi per lo sport – 9%
  • Orientamento ai servizi e presidi sanitari territoriali – 8%

In questo modo abbiamo potuto utilizzare i risultati ottenuti per stabilire le indicazioni sulle priorità di intervento, ponendo in primo piano il recupero delle aree verdi, la rifunzionalizzazione di spazi utili per teatro e proiezioni, il miglioramento dell’accessibilità per bambini, famiglie e disabili in tutto lo stabile e attraverso un nuovo ingresso pedonale sul lato di via San Raffaele, l’ampliamento degli spazi per l’ambulatorio popolare e la prospettiva di efficientare l’edificio dal punto di vista energetico con l’installazione di pannelli solari, oltre al necessario lavoro di manutenzione generale e ammodernamento degli spazi al piano terra.

Il tema generale su cui poi abbiamo posto l’attenzione è, da un lato, la constatazione che l’Ex OPG continua chiaramente ad avere un’architettura che deriva dall’uso carcerario, che lo rende estremamente separato dal quartiere e che non risponde ovviamente, dal punto di vista della sua morfologia, all’attuale uso e ruolo da “bene comune”. Dall’altro lato, proprio per la funzione storica che ha avuto, crediamo sia importante mantenere una memoria architettonica e non immaginare un’eccessiva trasformazione di certi luoghi per poterne garantire nel tempo un racconto non solo descrittivo ma visivo.

Non solo quindi abbiamo ragionato sulle priorità identificate dalla comunità di gestione e dai risultati delle interviste e dei laboratori, ma anche sulla necessità di rendere fruibile il cantiere per tenerlo aperto, senza mai interrompere le attività sociali e politiche. Dalle linee guida che ne sono seguite abbiamo incontrato il Demanio, che ha portato avanti una prima fase di progettazione, e abbiamo constatato ascolto verso il lavoro svolto per dare indicazioni utili al territorio e alle attività già presenti nello spazio, come avevamo riscontrato del resto anche dai dipendenti dell’Assessorato ai Beni Comuni.

Una piccola dimostrazione, a nostro avviso, che la motivazione a lavorare bene non viene semplicemente dalla competizione e dal controllo, come ci ripete una certa ideologia dominante, ma da un contesto in cui è possibile davvero poter spendere le proprie energie e competenze per finalità pubbliche e collettive di valore.

3. In direzione ostinata e contraria. Quale idea di “bene comune” per il potere popolare 

Una parte invece assolutamente centrale, anche nel percorso di coprogettazione, ha riguardato proprio l’indagine sull’esperienza napoletana dei beni comuni, sui principi che la contraddistinguono, sulle normative che ha prodotto in termini non solo di riconoscimento dei beni comuni napoletani, ma soprattutto di governance democratica e di innovazione su forme di proprietà collettive che stimolino la cooperazione e l’autogestione.

In Italia la narrazione sui beni comuni è molto eterogenea. Non esistendo una normativa nazionale, le delibere e i regolamenti adottati da vari enti locali spesso differiscono enormemente l’uno dall’altro, portando per lo più a una certa “normalizzazione” e a un’assimilazione dei beni comuni al mondo del terzo settore. Nell’esperienza napoletana invece si è costruita una connessione tra l’idea di beni comuni come beni inalienabili che rappresentano fruizione di diritti fondamentali (come per es. lo sono anche il diritto alla vita, all’acqua, alla tutela dell’ambiente etc) e l’antico istituto dell’“uso civico” che richiamava una forma giuridica di proprietà collettiva della terra, per lo più cancellata dagli economisti che lo valutavano come un intralcio alla libera iniziativa e appropriazione dei proprietari.

Venne quindi riconosciuto a Napoli l’uso civico e collettivo urbano, un istituto giuridico elaborato dal basso, dalle stesse comunità degli spazi, e questo portò il Comune a riconoscerli formalmente come beni comuni, con apposite delibere della Giunta Comunale[1] che si rifanno alla delibera più significativa, la 446/2016, che ha come oggetto “l’individuazione di spazi di rilevanza civica ascrivibili al novero dei beni comuni“. In questa delibera da un lato si riconoscono la valorizzazione sociale e la fruizione di diritti inalienabili, che innescano le esperienze che vivono questi spazi, da un altro lato non si usa come parametro la valorizzazione economica degli stessi immobili.

Le delibere furono scritte sulla base delle Dichiarazioni di uso civico e collettivo di ciascun bene comune: con questa dichiarazione si mise nero su bianco quali erano e quali sono ancora tutt’oggi le pratiche che si sperimentano all’interno degli spazi; le regole di gestione, l’accessibilità e l’uso non esclusivo degli spazi e soprattutto la loro redditività civica, l’assenza di motivazione legate al profitto perché  “ciò che si produce” ha un valore sociale, culturale, partecipativo fuori da ogni logica di mercato.

 
Si istituiscono così forme dirette di governo per un vero e proprio “controllo popolare” attraverso la partecipazione diretta dell’uso del bene secondo il principio che chi vive e partecipa alla cura e allo sviluppo dello stesso ne è abitante e garantisce il rispetto della dichiarazione d’uso civico e la libera fruizione. Un piano, quello del “controllo popolare” che non riguarda solo il rispetto dei principi per la gestione diretta del bene ma costituisce e porta l’eterogenea comunità del bene a prendere parola anche “fuori”. Per usare le parole riprese anche nel corso dell’analisi sulla redditività civica portata avanti durante la coprogettazione:

“Ne consegue che la sostenibilità economica dei beni comuni, non potendo essere ricercata nella relazione con il mercato e la società civile (bandi, raccolta fondi, etc.), richiede un investimento pubblico: ai sensi dell’art. 3, comma 2, Cost., è infatti dovere del soggetto pubblico – in tutte le sue articolazioni nazionali e locali – responsabilizzarsi rispetto alla realizzazione dei diritti sociali, anche e soprattutto attraverso l’impiego delle proprie risorse materiali ed economiche. In tale quadro, la rivendicazione dei beni comuni – riconosciuta dalle Delibere approvate dal Comune di Napoli – sta non tanto nella delega a esercitare funzioni sociali di spettanza del settore pubblico, bensì nell’azione volta a trasformare l’esistente verso un ampliamento del godimento dei diritti sociali e l’esercizio dei diritti fondamentali che oggi le Istituzioni faticano a garantire. Detta azione si concretizza sia nella risposta immediata al bisogno, attraverso le attività mutualistiche, sia nel processo partecipativo e di attivazione sociale che tale risposta innesca”[2].

Purtroppo se la cura del bene e l’attivazione sociale non sono mancate nelle varie attività sviluppatesi nello spazio, non possiamo dire di aver ancora contaminato le politiche pubbliche, come riscontrato sia rispetto a numerose proposte in difesa di diritti fondamentali rimaste inapplicate, dal monitoraggio per il contrasto al lavoro nero al riconoscimento del diritto alla residenza, all’accoglienza diffusa, al riconoscimento dei rischi e delle gravi distorsioni sul mercato immobiliare che sta portando la turistificazione della città, sia rispetto alla conoscenza, negli uffici dell’amministrazione locale e non solo, del valore di un’esperienza come questa.

Conclusioni

Abbiamo ancora molta strada da fare ma quello che è successo fino ad oggi non era previsto dalle istituzioni, ha sconvolto equilibri politici, ha fatto crescere tanti e ha scosso chi è sempre pronto a dire che “tanto non cambia mai niente”, che “tanto è tutto già scritto”. È qualcosa di ancora piccolo e ne siamo consapevoli, ma che resta estremamente prezioso perché dimostra, ancora una volta, che non esiste democrazia senza conflitto, che l’azione soggettiva apre spazi inediti e non bisogna darsi limiti nell’umano desiderio che esprimiamo di una società che ci permetta davvero di vivere con dignità, di avere il tempo per passioni e affetti, di vivere una vita pubblica e non solo richiusa e ossessionata dalla sicurezza nel proprio privato.

Vi aspettiamo per monitorare i lavori, per contribuire alla riorganizzazione delle attività per decidere di fare parte di una comunità mutevole ed eterogenea, ma che ha sempre tanta voglia di sognare e di continuare a camminare.


[1] D.G.C. nn. 893/2015, per l’Asilo, 297/2019, per Villa Medusa, e 424/2021 per Lido Pola, Santa Fede Liberata, Scugnizzo Liberato, ex OPG e Giardino Liberato.

[2] Redditività civica, Ad Uso Civico e Collettivo, Scuola Open Source